L’esperienza del covid con tutte le sue conseguenze che tutti noi abbiamo vissuto, ha fatto tornare alla mente di Nadia il proprio vissuto– di fatto mai dimenticato- di bambina con una malattia contagiosa e mortale come la tubercolosi.
Nadia ha scolpito nel suo cuore che la vicinanza, la cura, l’attenzione e l’amore anche di persone estranee, siano stati importanti forse quasi quanto i medicinali… se non di più!
Sembra un concetto scontato eppure non lo è più dopo la pandemia che ha totalmente cambiato le nostre abitudini personali e anche, ancora adesso, tutte le procedure sanitarie, tanto che far visita ad una persona cara in ospedale non è più così scontato o semplice.
Forse noi cristiani dovremmo riflettere e interrogarci sui nostri atteggiamenti, alla luce della parabola del buon samaritano e dell’esempio di Vangelo vivente quale è stata santa Madre Teresa di Calcutta.
Mi chiamo Nadia e ho la tenera età di 77 anni.
Nel lontano 1951 feci il mio primo lockdown, avevo l’età di sei anni quando fui ricoverata in pediatria a Pisa perché avevo contratto la tubercolosi e vi rimasi per sei lunghi mesi.
La mia vita cambiò repentinamente, da bambina spensierata, allegra e giocherellona passai in un luogo di dolore e di tanta sofferenza: malattie di ogni genere, punture dolorose e la morte di diversi bambini con malattie gravi erano gli scenari quotidiani.
Quando moriva un bambino chiudevano le porte ed io, da bambina curiosa, aprivo uno spiraglio e vedevo passare un carrello con una coperta scura, mi spaventavo molto pur non sapendo il significato della parola morte.
Davanti alla pediatria c’era la clinica psichiatrica, la notte sentivo urlare e io sotto le coperte, sola, pensavo: “cosa gli faranno?”
Di tutto questo la sofferenza più grande fu quella della mia amata mamma che si ammalò anche lei di tubercolosi e fu ricoverata al sanatorio a Livorno, così rimasi sola. Il mio babbo, tanto amato, veniva solo la domenica perché doveva lavorare.
In tutta questa sofferenza devo dire che la forza di resistere proveniva dall’amore con cui i medici e lo staff infermieristico mi curavano.
Ricordo ancora l’episodio di un infermiere che mi portava il cibo da casa sua (uova fresche e carne) per cucinarmelo in ospedale.
Le persone che venivano a trovare i propri cari portavano il regalino anche a me, eppure era una malattia molto contagiosa e ghettizzante!
Nonostante la sofferenza e la solitudine in fondo all’anima che mi hanno fatto crescere in sensibilità e amore per le persone, non ho mai perso la forza, la gioia, l’allegria per tutto l’arco della mia vita, nonostante non siano mancati i problemi.
Ho avuto la fortuna di essere adolescente negli anni 60, dove ho sfogato la mia gioia cantando, ballando e recitando. Con musiche e parole che parlavano di amore ho sognato tanto, è stata una grande guarigione.
Ho iniziato il percorso di fede tanti anni fa e ascoltando la Parola di Gesù ho capito veramente il significato della parola Amore, vero motore della vita: si chiama Attenzione!
Un caro saluto,
Nadia
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